Si apre in Campania una stagione dei “grandi coltelli”, nella maggioranza come nell’opposizione.
Da una parte De Luca stravince, com’era nelle previsioni, ma al di là del dato bulgaro della vittoria, pressoché indiscutibile – è evidente che sarà difficile tenere insieme una coalizione così vasta e diversificata, con tanti partitucoli in cerca di una nuova alba, e tanti transfughi e voltagabbana (notoriamente i più esigenti sui tavoli della politica).
Ancor più difficile sarà costruire – o meglio ricostruire – una seria, costruttiva, fruttuosa opposizione. Non di sconfitta si è trattata, ma di una vera e propria debacle. Una disfatta totale che ha fatto venir meno non solo il partito che ha espresso Caldoro, ma anche gli altri della coalizione.
Vincenzo De Luca conquista la Campania e – ammette lui stesso – la sua è una vittoria “oltre sinistra e oltre destra”. Una vittoria “senza confini” che nella realtà si sostanzia in un consenso trasversale che sarà appunto difficile tenere insieme. Da Cirino Pomicino a De Mita, da Mastella a Patriciello – sarà difficile accontentare tutti. E non è difficile prevedere le conseguenze di malumori e dissapori sulla concreta gestione della cosa pubblica. Traditori e voltagabbana non sono certo stati determinanti (dati alla mano, De Luca avrebbe vinto anche senza il loro appoggio), ma la cambiale firmata dal Governatore con questa gente andrà ora comunque onorata. Cosa non semplice.
Ma anche nella sua stessa coalizione potrebbero venir fuori problemi: il Pd si conferma primo partito con oltre il 17% dei consensi. Un dato indubbiamente positivo, se si considera che proprio la partitocrazia tradizionale paga lo scotto delle tante, troppe liste civiche di sostegno (uno sproposito: quindici). L’affermazione netta della lista personale, De Luca Presidente, che quasi triplica i consensi rispetto al 2015, la dice lunga su quali saranno i rapporti di forza interni alla coalizione. Il Pd rispetto alle scorse regionali paga una cambiale di quasi due punti percentuali, scendendo dal 19,5 al 17,6%.
Non avrà vita facile, il riconfermato Governatore salvato dal Covid: al di là della pur opinabile gestione dell’emergenza sanitaria, è evidente che prima della pandemia – quando anche a sinistra nessuno o quasi voleva riconfermarlo – la situazione in Campania non era affatto quella dei trionfalismi della campagna elettorale. Anzi. Sui trasporti, sui rifiuti, sull’ambiente, sull’utilizzo dei fondi europei, sull’efficienza della macchina amministrativa, erano tante e diffuse le sacche di inefficienza e malcontento. Tanti e gravi problemi cui ora toccherà mettere mano con una squadra un po’ troppo numerosa, “eterogenea”, esigente e pretestuosa.
A destra, la debacle è evidente. Nettissima. Non ammette repliche e va ben oltre le pessimistiche rilevazioni dei sondaggi che davano invece Caldoro indietro di appena 6-7 punti percentuali. Debacle anche per i sondaggisti sempre meno affidabili, giacché lo scarto è stato sette/otto volte più di quanto avevano rilevato.
Caldoro se la prende con le liste, che non lo avrebbero sostenuto: la realtà è che tutta la coalizione s’è presentata a questo appuntamento impreparata, scoordinata e anche poco credibile.
Il vero sconfitto a destra è probabilmente Silvio Berlusconi: s’è impuntato su un candidato, Stefano Caldoro, che nella percezione dell’elettorato aveva già fatto il suo corso, senza lasciare un segno profondo. Il candidato peggiore per un percorso di ricostruzione e riconquista di un entusiasmo perduto. Contro un “uomo forte” ci voleva una candidatura veramente di peso. La pessima gestione della campagna elettorale da parte di Caldoro – fatta di attacchi personali, progetti improponibili, di idee appese a tecnicismi e anglicismi pare studiati apposta per non essere compresi dalla maggioranza dell’elettorato – ha poi fatto il resto rendendo più grave una sconfitta che probabilmente sarebbe maturata comunque (ma non con queste proporzioni).
Escono con le ossa rotte tutte le più importanti forze del centrodestra (Lega, Fi, Fdi), praticamente “livellate” nella sconfitta (poco sopra il 5%). A Berlusconi toccherà ora capire cosa vuol fare di Forza Italia, che in Campania è dilaniata dai dissapori interni (e non da oggi) e raccoglie anche il frutto di questo andazzo, tra incomprensibili associazioni para-partitiche (dall’impatto zero sull’elettorato), manie di protagonismo e una disaffezione sempre più diffusa. Fratelli d’Italia non fa breccia, e pure sconta un assetto di vertice ingessato e “chiuso” da troppi anni.
La Lega raccoglie un misero 5,28% che impone una rivisitazione della presenza nel Mezzogiorno al partito di Salvini. Che non conquista il Sud (e s’era già capito con le numerose e frequenti contestazioni) ma rischia di perdere anche il Nord, con Zaia che, in Veneto, trionfa in maniera così eclatante minando gli equilibri interni al partito.
Si tornerà a rapporti Nord-Sud sempre più tesi, facile prevederlo, ora che arriveranno i miliardi del Recovery Fund e (forse) del Mes. Con la Lega sempre più nord-centrica, ed un Mezzogiorno peraltro meno (ma speriamo non peggio) rappresentato per l’esito del referendum. Vince il Sì (ma era ampiamente prevedibile) soprattutto al Nord. Evidente quindi la preoccupazione, al Sud, che il taglio di parlamentari possa tradursi in un calo di rappresentanza e rappresentatività nelle regioni più deboli (oggi già scarsamente rappresentate, ma più per demeriti che per rapporti numerici).
Infine l’affluenza, che guadagna qualche punto percentuale. È un dato sicuramente positivo.